Il termine Mindfulness può essere tradotto come “presenza mentale”, fa riferimento ad un tipo di consapevolezza auto-riflessiva, un’abilità meta-cognitiva che permette alla mente di osservare se stessa (consapevolezza di essere consapevoli).
Una volta in contatto con la medicina occidentale, il termine, ha assunto un significato più ampio descrivendo, oltre alle qualità mentali di consapevolezza e accettazione, un insieme di tecniche che possono essere utilizzate in particolari condizioni cliniche all’interno di programmi terapeutici perlopiù di stampo cognitivo-comportamentale
1. Mindfulness: tra antichi e nuovi saperi
Jon Kabat-Zinn (Kabat-Zinn, 2003), il pioniere della mindfulness terapeutica, la definisce come:
“la consapevolezza che emerge prestando intenzionalmente attenzione, nel momento presente e in modo non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza, momento dopo momento” .
Bishop e altri autori (2002) riferendosi maggiormente all’uso clinico della mindfulness in un loro lavoro la definiscono:
“l’autoregolazione dell’attenzione , tale da mantenerla sull’esperienza presente, rendendo in tal modo possibile una maggiore capacità di riconoscere gli eventi mentali nel momento presente […] adottando un particolare atteggiamento nei confronti della propria esperienza, caratterizzato da curiosità, apertura e accettazione”.
Lo scopo degli interventi mindfulness-based è quello di instaurare una forma di consapevolezza dell’esperienza potenziata ma distanziata, sia essa sensoriale o cognitiva.
“la via d’uscita dal nostro stato di trance quotidiano nel quale siamo in balia di un insieme di condizionamenti inconsci o coscienti, abituali e automatici”
Tutti noi, chi più chi meno, nel corso della nostra vita quotidiana sperimentiamo uno stato mentale che possiamo definire mindfull in quanto si tratta di una caratteristica specie-specifica dell’essere umano, definita anche come auto-coscienza o metaconsapevolezza.
Questo stato può essere coltivato e perfezionato, sperimentando un modo diverso di entrare in contatto con l’esperienza (sia essa negativa, positiva o neutra) trovando delle nuove risorse per ridurre il livello generale di sofferenza e accrescere il livello di benessere psicologico.
L’utilizzo sempre più ampio della mindfulness all’interno di programmi terapeutici di stampo cognitivo-comportamentale sancisce, di fatto, l’incontro tra la filosofia orientale (in particolare la psicologia buddhista) e la medicina occidentale. Nonostante l’utilizzo della mindfulness in psicoterapia sia relativamente recente, in realtà, i processi di cambiamento proposti, come la de-fusione dai pensieri patologici, l’accettazione dei vissuti negativi, il miglioramento della qualità della vita e la promozione “dell’igiene mentale”, possono essere ritrovati in tutte le prospettive occidentali che contemplano la salute mentale, come le psicoterapie, la psichiatria e la riabilitazione psichiatrica.
Negli approcci basati sulla mindfulness si dà molta importanza alle risorse e alle potenzialità personali (concetti che si ritrovano nei modelli riabilitativi occidentali) e della mente nel curare se stessa attraverso un percorso di introspezione (come nelle psicoterapie).
Secondo la psicologia buddhista, un soggetto, se guidato e orientato in modo corretto, può sviluppare spontaneamente la capacità di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore autonomia, armonia e serenità verso se stesso, può coltivare e instaurare un rapporto più oggettivo e reale verso l’esperienza.
Nell’ultimo decennio molti studiosi, perlopiù del campo della psicologia e delle neuroscienze, sono stati attratti dalla possibilità di sfruttare questa tecnica per scopi terapeutici.
Diversi studi hanno indagato i benefici della mindfulness utilizzando strumenti di valutazione tipicamente occidentali come test psicologici e neuropsicologici o tecniche di neuroimaging (Jha, A.P., Krompinger, J., & Baime, M.J. 2007).
Questi studi, in linea di massima, suggeriscono che la meditazione funziona attraverso meccanismi quali il rilassamento, l’esposizione, la desensibilizzazione, la de-ipnosi, la de-automatizzazione, la catarsi e il de-condizionamento (Murphy e Donovan, 1997; Murphy, 2006). Altre ipotesi sui processi delle pratiche meditative sono l’insight, l’auto-monitoraggio, l’auto-accettazione e la comprensione di sè (Baer, 2003, 2006). Dal punto di vista neurofisiologico la meditazione agirebbe invece sulla diminuzione dell’attivazione psico-fisiologica (arousal), sui cambiamenti nell’attività del sistema nervoso autonomo, l’immunizzazione dallo stress, la sincronizzazione emisferica e cambiamenti della lateralizzazione (per una review vedi Cahn e Polich, 2006).
Infine, alcuni studi hanno evidenziato cambiamenti morfologici, in termini di plasticità nervosa, a carico di specifiche aree cerebrali, in particolar modo di quelle connesse con attenzione e regolazione emotiva oltre a modificazioni del tracciato elettroencefalografico (Jha, A.P., Krompinger, J., & Baime, M.J. 2007; Lutz, A., Greishar, L., Rawlings, N., Richard, M., & Davidson, R. 2004).
Un aspetto fondamentale delle terapie mindfulness-based è l’importanza che viene data all’unità mente-corpo; secondo questo approccio, ad esempio, il riconoscimento e la descrizione delle sensazioni e delle percezioni del corpo veicolano informazioni riguardo alla sfera cognitivo-emozionale (Solms & Turnbull, 2003, 2007). Questo aspetto risulta rilevante se pensiamo che in alcune patologie psichiatriche i soggetti utilizzano proprio il corpo come “metafora” per esprimere emozioni e conflitti che non sono in grado di verbalizzare e, per questo motivo, le tecniche cognitivo-comportamentali, che a stento considerano il corpo all’interno dei programmi terapeutici e riabilitativi, acquisiscono una dimensione più completa.
Con l’aiuto della mindfulness il paziente può esplorare la dimensione della corporeità in modo autonomo, spontaneo e decentrato in modo da acquisire la consapevolezza necessaria dei propri stati interni attraverso la semplice osservazione degli stati corporei. Non a caso la mindfulness è stata adottata e “manualizzata” dalla psicologia di stampo cognitivo-comportamentale.
L’uso della meditazione in protocolli psicoterapeutici può destare scetticismo o il sospetto che si tratti di una moda “new age” ma, probabilmente, la tecnica stessa può essere facilmente svincolata dalla filosofia che vi sta alla base, con ciò si intende dire che l’esercizio di mantenere il focus dell’attenzione su un oggetto specifico, inibire le distrazioni, riportare l’attenzione sul focus quando ci si distrae, osservare e non giudicare ciò che si trova nel campo della coscienza, ha delle ricadute positive al di là della dottrina filosofico-religiosa che vi sta alla base, i cui concetti possono però essere “utilizzati” come contenuti (positivi) alternativi allo stile di pensiero abituale; nulla vieta comunque di utilizzare altri concetti.
In ogni caso vi è un dibattito aperto riguardo al fatto che l’inserimento della mindfulness nelle psicoterapie rappresenti un vero e proprio salto paradigmatico tra le nuove terapie e tutto ciò che vi è stato prima. Indipendentemente da come la si pensi i risultati clinici e della ricerca e la diffusione di queste pratiche in un arco relativamente breve di tempo (vedi fig.1), esplicitano la necessità di verificare approfonditamente le vere potenzialità di queste tecniche per la salute mentale. Di fatto, alcuni protocolli mindfulness-based vengono già utilizzati con successo come la Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT) e l’Acceptance and Commitment Therapy (ACT) (Hayes, 1999; 2005); nel primo caso la mindfulness rappresenta un elemento chiave, trasversale ed unificante della terapia, nel secondo caso, invece, la mindulness ha un ruolo meno centrale ma viene utilizzata come modulo all’interno di un intervento più complesso.
fig.1: grafico che mostra la quantità di lavori scientifici sulla mindfulness tra il 1980 ad oggi
2. Processi cognitivi, mente e influenze top-down
Lo stato mindfull, caratterizzato dalla capacità di osservare in maniera oggettiva e pragmatica ciò che si trova, in un dato momento, all’interno del flusso di coscienza, seppur intrinseco nel funzionamento della mente umana, non è sempre presente. Per una mera questione di risparmio di risorse cognitive, spesso mettiamo in moto una sorta di “pilota automatico” (Farb et. al, 2007) determinato da schemi mentali ben consolidati in seguito alle esperienze pregresse, come frutto di apprendimento.
Un esempio che viene spesso utilizzato è quello dell’automobile: quando decidiamo di metterci in auto per andare al lavoro mettiamo in atto una serie di operazioni mentali e motorie che ci consentiranno di raggiungere il luogo ove siamo diretti; il ruolo della coscienza, in questo esempio, è quello di dare inizio ai singoli piani di azione (ad esempio decidere la destinazione) mentre le singole operazioni possono essere eseguite in modo automatico (cambiare le marce, svoltare a destra o sinistra ecc…), lasciandoci liberi di intrattenere una conversazione con un eventuale passeggero o fare progetti sulla giornata di lavoro che sta per iniziare.
L’esempio mostra chiaramente l’utilità adattiva del “pilota automatico” che, tuttavia, ha un rovescio della medaglia; in alcuni casi esso non consente di mettere in atto comportamenti creativi in situazioni già sperimentate a cui si risponde in maniera quasi stereotipata, adattiva ma non necessariamente funzionale. Infatti, uno dei fattori principali, in grado di generare e mantenere uno stato di sofferenza mentale, come ansia o depressione è una specifica reazione che gli individui hanno imparato ad attivare nei confronti dei propri stati interni (Didonna, 2008); ad esempio, nei soggetti affetti da disturbi psichiatrici gravi, come la schizofrenia, le situazioni relazionali evocano schemi mentali consolidati che si manifestano ciclicamente in tutte le occasioni di socializzazione, nel paziente depresso la mente è intrappolata in una rete di pensieri pessimistici e auto-svalutativi (ruminazione), un soggetto affetto dal disturbo ossessivo compulsivo si confronta continuamente con il contenuto del pensiero ossessivo che invade il focus della coscienza in modo indipendente dalla volontà dell’individuo che è costretto a mettere in atto le compulsioni, pena una forte ansia che può sfociare in veri e propri attacchi di panico. Dunque, questi individui sperimentano modalità di pensiero spesso indesiderate, il loro cervello indipendentemente dalla volontà, ripercorre “solchi” mentali già sperimentati in ogni episodio acuto della patologia. Verrebbe da interrogarsi sul perchè il cervello debba cristallizzarsi e conservare modalità di pensiero così disfunzionali (Fulton & Siegel ;Siegel 2009; 1996), secondo Siegel:
“…questi stati della mente sono in realtà finalizzati a raggiungere obiettivi altamente desiderabili, il più importante dei quali è quello di ridurre o prevenire questi stessi stati […] i vecchi abiti mentali sono ingannevoli perchè inducono a cercare di pensare a come risolvere i problemi, il che significa continuare a rimuginare sull’attuale situazione emozionale e su tutti i problemi che potranno sorgere se le cose non cambiano”.
Anche in soggetti sani, i pensieri sorgono in rapida successione e spesso in modo indipendente dalla propria volontà; il punto, quindi, non è arrestare il flusso dei pensieri ma essere in grado di disidentificarsi da essi; questo assunto è proprio alla base dei programmi basati sulla mindfulness, indipendentemente dal fatto che questa assuma un ruolo centrale o meno all’interno della terapia. A tal proposito un filosofo indiano.
L’efficacia della meditazione sulla salute mentale sembra essere correlata, non al cambiamento dei contenuti del pensiero (obiettivo di molti approcci psicoterapeutici occidentali), ma dalla capacità di osservare i propri pensieri da una prospettiva più decentrata e imparziale, grazie alla quale è possibile “liberarsi” dall’influenza sul comportamento di contenuti emotivi e cognitivi indesiderati.
La ruminazione rappresenta uno dei processi cognitivi più frequenti in psicopatologia in cui è implicito il giudizio dell’esperienza che attiva una sorta di loop patologico che porta il soggetto a ritornare spesso sugli stessi contenuti.
Anche se può sembrare che il soggetto stia affrontando i propri problemi rimuginandoci sopra, questo causa in realtà effetti negativi: se il problema non viene risolto, infatti, i pensieri ricorrenti alimentano il processo di ruminazione; questo provocherà il sorgere di sentimenti negativi e pensieri di auto-svalutazione sempre più intensi e lontani dalla situazione reale e sempre più dominanti rispetto alle possibili soluzioni del problema.
La mindfulness propone di invertire questi processi a spirale in cui spesso i soggetti affetti da psicopatologie si trovano invischiati. Favorendo i processi del “lasciar essere” e “lasciare andare” si modifica alla base la relazione dei pazienti con i loro pensieri, emozioni e sensazioni fisiche, che contribuisce ad attivare e mantenere gli stati psicopatologici.
3. Modalità del fare e Modalità dell’essere
Alla base della ruminazione vi sarebbe una funzione del Sè chiamata “rilevatore di discrepanza” (Segal Z, Mark J., G.Williams, John Teasdale, 2004) che ha la funzione di valutare la situazione attuale rispetto a ciò che è desiderato, atteso o temuto. Quando il rilevatore trova una discrepanza porta la mente a rimuginare su quel determinato problema allo scopo di trovarvi soluzione; cosa che purtroppo non è sempre possibile; quando ciò accade la mente rimane bloccata sul problema, “intasando” il flusso di coscienza con contenuti inerenti la discrepanza. Per chiarire il funzionamento del rilevatore di discrepanza gli autori distinguono due modalità di funzionamento della mente definite “modalità del fare” e “modalità dell’essere”: La modalità del fare è strettamente correlata con la funzione cognitiva del problem solving, nel momento in cui viene rilevata una discrepanza la mente entra in questa modalità nel tentativo di ridurla o eliminarla; se possono essere messi in atto comportamenti in grado di farlo, la mente può uscire dalla modalità del fare, altrimenti, se la soluzione della discrepanza è complessa, impossibile o non può essere raggiunta immediatamente, la mente stagnerà in questa modalità fino a quando la discrepanza non verrà risolta o finché non interviene un compito più urgente a distogliere, solo temporaneamente, l’attenzione da essa.
In questo caso, la modalità del fare, è spesso accompagnata da contenuti emotivi sgradevoli, come insoddisfazione e ansia, e da un continuo monitoraggio dei successi e degli insuccessi che riguardano la risoluzione del problema, questo comporta un rimugino sul passato (ciò che ha causato la discrepanza e su quello che si sarebbe potuto fare per evitarla) e sul futuro (come risolverla), tralasciando il presente; in realtà, l’individuo è consapevole del presente, ma solo in modo ristretto. La modalità del fare non è di per se patologica, in quanto, abbiamo detto, sta alla base del problem solving cioè, quando viene attivata per problemi immediatamente risolvibili, effettivamente li risolve.
Il problema nasce nel momento in cui non è possibile risolvere immediatamente la discrepanza e la mente si arrovella nel tentativo di trovare la soluzione a questioni complesse del tipo: essere felici o meno infelici. La modalità del fare è quindi correlata al pensiero concettuale (necessario per il problem solving); ciò comporta che i pensieri vengono caricati di un peso eccessivo, cioè vengono percepiti come un rispecchiamento valido della realtà, classificati come “buoni” o “cattivi” e selezionati di conseguenza. Per quanto riguarda la “modalità dell’essere”, per molti aspetti, è l’opposto di quella “del fare”, non è orientata ad uno scopo preciso, come può essere quello di ridurre o eliminare la discrepanza, e non è motivata a raggiungere determinati obiettivi. In questa modalità di funzionamento l’attenzione è maggiormente orientata sul momento presente, tende all’accettazione e al “lasciar essere”, la mente è più libera di concentrarsi in maniera obiettiva sul momento presente poiché non è impegnata a cercare di ridurre la discrepanza. Un’altra differenza tra modalità del fare e dell’essere sta nel modo in cui la mente percepisce il tempo, inteso come continuità tra passato presente e futuro; i pensieri, compresi aspettative per il futuro o traumi del passato vengono “osservati” per ciò che sono in realtà:
“eventi mentali che sorgono, diventano oggetto della consapevolezza e poi svaniscono”
(D.J. Siegel, 2005).
La modalità dell’essere non va intesa come assenza di attività ma come un atteggiamento mentale aperto all’esperienza del presente, che consente di regolare il proprio approccio alla realtà rispetto a pensieri, sentimenti ed esperienze.
4. La mindfulness come esercizio per risvegliare la mente creativa
L’interesse della psicologia cognitivo-comportamentale e delle neuroscienze verso la mindfulness è giustificato da ciò che la mindfulness è dal punto di vista pratico, piuttosto che alla filosofia che la sottende; l’esercizio fondamentale richiesto dalla meditazione somiglia molto ad un compito di riabilitazione neurocognitiva in grado di attivare, in maniera più o meno specifica, reti neurali connesse direttamente all’attenzione alla regolazione emotiva.
Riassumere il controllo della mente non può prescindere dall’imparare a controllare i processi attentivi, nella meditazione l’attenzione è rivolta al momento presente, all’esperienza così per come si presenta, cercando di mantenere un atteggiamento mentale caratterizzato da “curiosità, apertura, accettazione, amore” o COAL (curiosity, openness, acceptance, love) (Siegel, 2009), questo significa che durante la meditazione ogni pensiero, sensazione o emozione che raggiunge la consapevolezza merita attenzione ma, allo stesso tempo, deve essere considerato per quello che è in realtà, cioè un evento mentale che sorge diventa oggetto della consapevolezza e poi svanisce (J. Kabat-Zinn, 1987). Questo aiuta a distaccarsi dai pensieri che generano e si colorano di emozioni e giudizi personali; un esempio di come può essere importante il processo di distacco dalla coloritura emotiva dei pensieri lo ritroviamo nelle fobie, in cui uno stimolo comporta una reazione emotiva abnorme rispetto alla reale pericolosità dello stesso e al di fuori del controllo volontario del soggetto. I processi di disidentificazione dai pensieri permetterebbero di addestrare la propria mente a considerare i vari stimoli che si trovano nel focus dell’attenzione in modo più oggettivo e distante.
5. Le abilità di Mindfulness
La pratica della meditazione comporta l’acquisizione di alcune abilità che possono essere facilmente rilevate da alcuni questionari psicometrici (al di là del pensiero attraverso il pensiero):
Non reattività rispetto all’esperienza interna
Osservare\notare\dedicarsi alle sensazioni (ad esempio, rimanere in contatto con i propri sentimenti anche quando dolorosi)
Agire in modo consapevole, non con “il pilota automatico”
Descrivere con le parole i propri stati interni
Atteggiamento non giudicante rispetto all’esperienza
È importante sottolineare che l’obiettivo della mindfulness non è quello di risolvere i problemi che provocano sofferenza, ma di accettarli e comprendere che non rappresentano un nemico da sconfiggere. Se non viene compreso questo concetto, si rischia di incorrere nel cosiddetto processo di auto-invalidazione, cioè la meditazione potrebbe venire considerato uno strumento magico in grado di risolvere i problemi della vita, trasformandosi nell’ennesimo tentativo di risolvere i problemi attraverso la modalità del fare; il rischio è di rimanere bloccati nello stato da cui si sta cercando di uscire; la mindfulness può essere un’abilità utile per affrontare i vari aspetti della vita, compresa la sofferenza ma non è una cura miracolosa. Non si tratta di insegnare una via per fuggire dai propri pensieri o problemi ma la consapevolezza che lottare contro questi contenuti negativi può portare all’aumentare della difficoltà e della disorganizzazione interni. È ovvio che chiunque soffra non voglia soffrire più, ma secondo l’approccio mindfulness, prima di risolvere il problema è necessario fare un passo indietro: capire con quale rapidità si reagisce ai problemi con lo scopo di risolverli ed infine capire il problema e studiare eventuali nuove soluzioni per affrontarlo in modo non disfunzionale. Un altro punto importante riguarda i terapeuti, o meglio, gli istruttori che, oltre alla preparazione, devono possedere una certa esperienza di pratica per riconoscere nel paziente i problemi che emergono durante le sedute e guidarlo verso la loro risoluzione. Gli autori preferiscono utilizzare il termine “istruttori” rispetto a “terapeuti” probabilmente perchè la mindfulness non va considerata una cura ma un percorso che si intraprende con il paziente a cui non ci si limita ad impartire istruzioni o dare suggerimenti. Nel momento in cui sorgono delle difficoltà la funzione dell’istruttore è quella di affiancare ed incoraggiare il paziente cercando di sviluppare la consapevolezza che i pensieri sono solo pensieri e non un rispecchiamento fedele della realtà.
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