Abstract
Il paradosso di cui si vuol qui dare una semplice introduzione prosastica, si inserisce nella più ampia e complessa problematica che sta alla base della nozione di regola (linguistica, matematica, etc.) e quella di seguire una regola. Una discussione divulgativa ed euristica di questo paradosso permetterà, tra le altre cose, di poter conseguire una maggiore chiarezza concettuale sull’origine, l’identità, la natura e la motivazione delle regole formali, prime fra tutte quelle aritmetiche, nonché di rivedere criticamente alcune precognizioni che noi tutti abbiamo della nozione di razionalità. Nonostante sia stato elaborato in ambito prettamente filosofico, l’esposizione divulgativa che di questo paradosso viene fornita in questa rassegna vorrebbe cercare anche di lambire altri contesti disciplinari non filosofici, in primis quello psicopedagogico, al fine di stimolare anzitutto l’interesse critico e riflessivo dei discenti, per esempio nei riguardi delle regole matematiche.
Articolo
In senso lato, potremmo iniziare dal considerare una regola come una qualsiasi proposizione prescrittiva ben formata. In quest’accezione generale, rientrano le nozioni di norma, massima e legge. Ludwig Wittgenstein, nella seconda fase del suo pensiero, ha però decisamente messo in discussione quel carattere di necessità che sembra caratterizzare una qualsiasi regola, avvertendo dell’inevitabilità d’incorrere in taluni aspetti paradossali se ci si limita alle usuali concezioni che noi tutti abbiamo delle nozioni di ‘’regola’’ e di ‘’seguire una regola’’. Egli, infatti, afferma che:
“La Regola può essere un ausilio all’insegnamento del gioco. È comunicata allo scolaro, che viene esercitato ad applicarla. Oppure è uno strumento del gioco stesso. Oppure ancora: una regola non trova impiego né nell’addestramento né nel gioco stesso, e non è neppure depositata in un elenco di Regole. S’impara il gioco osservando come altri giocano. Ma noi diciamo che si gioca seguendo questa o quest’altra Regola, perché un osservatore può ricavare queste Regole dalla pratica del gioco, come una legge naturale a cui si conformano le mosse del gioco”
[(Wittgenstein 1958, Part I, § 54, p. 27e)]
Seguire una regola, per Wittgenstein, non consiste semplicemente nel seguire i precedenti esempi e casi della regola, né essa è unicamente caratterizzata dalle sue varie formulazioni ed interpretazioni, né tantomeno dalle modalità e circostanze del suo agire secondo certe disposizioni o determinati precetti. Egli insiste nel sottolineare, con valide argomentazioni filosofiche, come queste non siano condizioni necessarie e sufficienti del seguire una regola, a meno di rasentare scenari paradossali. Infatti, Saul Kripke, un importante logico e filosofo dell’Università di Princeton, nei primi anni ’80 dello scorso secolo ha prima introdotto, in Wittgenstein on Rules and Private Language (1982), quindi discusso, sulla base di questi lavori di Wittgenstein, di un paradosso che, tra i molti, ha interessato, ed ancora interessa, filosofi della scienza, linguisti, psicologi, per quanto riguarda la cruciale nozione di seguire una regola. Da qui, il nome del paradosso, che, per iniziativa di un altro importante filosofo dell’Università di Harvard, Hilary Putnam, è stato goliardicamente ribattezzato, per scansare inutili quanto sterili dispute di paternità, paradosso di Kripgenstein, anche se, a detta dello stesso Kripke, il paradosso era già presente, tale e quale, negli ultimi scritti di Wittgenstein sulla filosofia della matematica e del linguaggio, avendosi egli solo limitato a fornirne una sua versione, diciamo ‘moderna’, di un’argomentazione filosofica esposta, a suo tempo, dallo stesso Wittgenstein in una forma tale da destare l’attenzione e stimolare il senso della riflessione critica della comunità dei filosofi in primis. In questa sede, vorremmo, tuttavia, mediante un linguaggio quanto più possibile semplice ma rigoroso, cercare di rendere più flessibile la vasta portata di questo paradosso, estendendola opportunamente, senza snaturarla, ad altri contesti disciplinari, pensando per esempio a possibili applicazioni ad aree tematiche ad esso attinenti, in primo luogo quelle psico-pedagogiche.
Il tema centrale attorno a cui ruota il paradosso fondamentalmente riguarda il perché si segue una regola, ovvero il concetto di seguire una regola (rule-following), il quale è la chiave di volta di tutto l’impianto teorico della logica, della matematica, della scienza, della psicologia e della linguistica. Si intuisce quindi immediatamente come il concetto di rule-following abbia un indubbio carattere basilare e fondante, se non altro per quell’inevitabile e sgradevole sensazione di precarietà e smarrimento che ne conseguirebbe qualora il significato stesso delle operazioni mentali elementari di «capire» e poi «seguire» una regola, una regola qualsivoglia, venisse svuotato, screditato od ignorato. Col venir meno di tale concetto, anche quel minimo senso di sicurezza e padronanza, frutto del secolare progresso scientifico e culturale umano, svanirebbe. Insomma, un radicale e totale scetticismo nei riguardi del concetto-base di ‘’seguire una regola’’, minerebbe le fondamenta della stessa razionalità umana e di ogni sua concezione. Tuttavia, Kripgenstein ci ammonisce dell’inevitabilità di tale scetticismo, proponendo alla fine alcune eventuali soluzioni al paradosso le quali, però, non hanno avuto finora un definitivo consenso unanime. Esso, ancora oggi, rimane lì a ricordarci perentoriamente quali siano i nostri limiti conoscitivi.
Nell’iniziare a descrivere, per sommi capi, lo scenario del paradosso, anzitutto domandiamoci cosa possa voler significare, a livello intuitivo ed euristico, seguire una regola. A tale scopo, si consideri l’esempio più semplice possibile ma molto istruttivo, quello, cioè, dell’usuale addizione aritmetica. Domandiamoci, anzitutto, quanto fa 68 + 57? È ovvio, no, 125! Lo sanno tutti, basta seguire l’ordinaria regola aritmetica dell’addizione. Va bene, ma quale regola? Quella che, detta in parole povere, ci permette, partendo da un addendo qualsiasi, di ‘continuare’ a contare mentalmente, lungo la retta numerica, fino ad aver esaurito tutti e due gli addendi, oppure ci fa incolonnare le cifre e sommare, con riporto, da destra a sinistra. Capito? È così che si fa, così si è sempre fatto, e così sempre si farà. Ma, grazie proprio a tale ‘usuale’ regola, non sarà necessario aver eseguito tutte le possibili addizioni a due addendi, quindi memorizzarne i risultati. Basta semplicemente imparare la regola dell’addizione, quindi eseguirla caso per caso. Tuttavia, se concettualmente immaginassimo un essere intelligente dalla prodigiosa memoria sovraumana che riuscirebbe «bovinamente» ad imparare, a memoria bruta, un numero così grande e spropositato di somme da permettergli di rispondere correttamente a tutte le domande inerenti addizioni, nulla ci consentirebbe di scoprire che costui non sta seguendo la regola dell’addizione, ma che, piuttosto, sta rispondendo a memoria bruta, magari senza neanche avere la più pallida idea di cosa significhi addizionare aritmeticamente. Il noto caso del cavallo Hans d’inizio XX secolo, abilmente addestrato dall’insegnate di matematica Wilhelm von Osten, è un emblematico esempio del fatto generale che non si può stabilire se un essere intelligente stia seguendo o meno una regola, solo basandosi sul dato di risposte corrette. Infatti, una regola và messa alla prova su casi particolari, delicati o speciali, và saggiata magari laddove è più facile evidenziare l’errore o la diversità della regola seguita. Quali essi siano, cioè quali i test decisivi, dipende non solo da quale regola stiamo ponendo sotto esame, ma anche da quale potrebbe essere l’altra regola che il soggetto sta seguendo. D’altronde, giacché il numero di test eseguibili è sempre e comunque finito, questo comporterebbe l’inferire infinite conclusioni a partire da un numero finito, magari limitato, di prove, con tutta l’incertezza che ne conseguirebbe.
La capacità di eseguire qualsivoglia addizione, vecchia o nuova, tra numeri piccoli o grandissimi, con risultato certo e determinato, ci proviene dalla nostra capacità di comprendere e seguire la usuale regola dell’addizione, nel caso qui in discussione. Ma lo stesso dicasi per la sottrazione, la moltiplicazione, la divisione, l’estrazione di radice, e per qualunque altra operazione matematica. Dunque, è ovvio come ciascuno di noi abbia, come dire, ‘per forza’ imparato l’usuale regola dell’addizione, fin da bambino, facendo solo un piccolo numero di addizioni, per lo più fra numeri piuttosto piccoli. Una prassi, quest’ultima, limitata e finita, ma che ci fornisce, però, una capacità potenzialmente infinita, cioè la capacità, almeno disponendo di tempo, carta e penna a sufficienza, di eseguire qualunque altra addizione. È questa, d’altronde, la base concettuale del principio del metodo dell’induzione finita di Dedekind-Peano che caratterizza la struttura ricorsiva dei numeri naturali, attraverso cui è possibile poi costruire assiomaticamente il sistema algebrico dei numeri naturali, quindi tutta l’aritmetica, oltre ad essere, ricordiamolo, uno dei più elementari principi teorici della computazione informatica.
Prendiamo ora il caso, assai simile al precedente, di quei ben noti problemini nei quali si tratta di ‘continuare’ una serie, e molto comuni fra i test attitudinali elementari. Ad esempio, assegnata la serie numerica 2, 4, 6, 8, 10, …, seguitarla. Ed allora, cosa ‘ne segue’? Subito si dirà che riesce 12, 14, 16, e così via. Già, ma sottoponendo il caso al solito ‘’avvocato del diavolo’’, arrivati a 1000, costui, senza perplessità alcuna, invece continua con 1003, 1006, 1009, 1012, … . Ma – i molti subito ribattono –, un momento, c’è qualcosa che non va! Perché sta continuando in questa maniera? Forse sta sbagliando, o forse non sa contare di due in due, nonostante egli applica la nostra stessa regola, ma malamente. Oppure, vuoi vedere che sta semplicemente seguendo un’altra regola, del tutto lecita e plausibile, altrettanto ‘logica’ diremmo, anche se diversa dalla nostra? È importantissimo, difatti, distinguere il caso in cui una persona segue la nostra stessa regola, ma commettendo errori, dall’altro caso in cui uno segue senza errori un’altra regola. Qualora venisse a cadere questa cruciale distinzione, se non possiamo o non riusciamo, cioè, a distinguere tra l’errore e la diversità della regola, allora la questione diventerebbe disperata. Ogni sorta di equivoci, o fraintendimenti, possono così insorgere senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Per esempio, nel caso di cui appena sopra, l’avvocato del diavolo, arrivato a 10.000, potrebbe poi continuare con 10.004, 10.008, 10.012, etc., cioè aggiunge due fino a mille, quindi tre fino a diecimila, quattro fino a centomila, e così via, senza poter ancora escludere il caso di ulteriori cambiamenti dopo una certa cifra. Non avremmo potuto mai accorgerci che l’advocatus diaboli seguiva una regola diversa se non fossimo arrivati oltre il mille. Non avremmo inoltre scoperto quale era tale regola se non gli avessimo altresì chiesto come seguitava oltre 1.000, 10.000, e dopo 100.000. E nessuno ci garantisce come, andando ancora oltre, avrebbe continuato a seguire tale sua regola!
Domandiamoci ora, cosa succederebbe in una situazione nella quale non si potesse mai, in linea di principio, decidere a tal proposito? Cioè, una situazione nella quale non si riesce a discernere se due persone danno risultati diversi perché ambedue seguono la stessa regola, ma con errori, o perché, invece, ciascuno di loro segue creativamente una regola diversa, ma correttamente e logicamente altrettanto lecita. Sarebbe una dannazione! Non si potrebbe fare né matematica, né logica, né tantomeno scienza. Se ci si limita solo a risposte su casi specifici, se l’unica prova che abbiamo è il risultato di certi test, allora non possiamo mai essere certi poiché, come nel caso appena visto, andando abbastanza ‘lontano’, seguitando ancora oltre, potrebbe venir fuori una eventuale diversità delle regole seguite. Qualsiasi essere umano e qualunque calcolatore hanno, dai loro inizi fino ad ora, e senza eccezione, eseguito solo un numero finito, seppur grandissimo, di operazioni formali, per esempio di addizioni, per cui siamo molto lontani dall’aver esaurito tutte le possibili eventualità, peraltro infinite, prevedibili o prospettabili. Sembrerebbe, almeno intuitivamente, che i test e le risposte su casi specifici debbano essere accompagnati da, ovvero integrati con, una dichiarazione manifesta, cioè esplicita, di quale sia la regola seguita: insomma, l’incertezza potrebbe, diciamo potrebbe, essere fugata chiedendo, alla persona, quale regola stia seguendo. Con il cavallo Hans questa strada era preclusa, ma psicologi ed etologi riuscirono comunque a smascherare l’abile e ben imbastito inganno. Anche con un calcolatore piovuto dallo spazio intergalattico la situazione non cambierebbe molto, e forse non ci resterebbe altro che smontarlo completamente per cercare di capire quale regola il costruttore abbia seguito nel programmarlo. Tuttavia, tra esseri umani, ricorrendo alle opportune traduzioni, la questione non dovrebbe essere poi così ingarbugliata, perché una persona dovrebbe sempre poterci dire qual è la sua regola, a meno che il problema dell’incertezza sulle regole non sussista anche al livello stesso del linguaggio con cui si comunica. Ovvero, se non riusciamo ad essere sicuri neanche delle regole del linguaggio comune, allora a poco servirà che la persona interrogata enunci comunque la regola, in quanto il suo enunciato riproporrebbe le medesime incertezze che si avevano in partenza.
Infatti, se si dà il caso che, per «contare», quella persona intende contare a due a due e poi, ogni volta, istantaneamente sottrarre uno, allora essa ‘manifestamente’ «conterà» ancora uno, due, tre, quattro, …, come noi, pur seguendo una regola diversa. Se, per «addizionare», intende, poniamo il caso, aggiungere il doppio e poi togliere la metà, allora anche i risultati delle addizioni saranno identici ai nostri. Quindi, in questi termini, non ci accorgeremo mai che sta seguendo una regola diversa dalla nostra, giacché ottiene gli stessi nostri risultati. E se anche ci venisse un dubbio, chiedendogli di «dichiarare» manifestamente la sua regola, egualmente non ci accorgeremmo della differenza perché usa i nostri stessi, comuni termini linguistici, quali ad esempio «contare» ed «addizionare», sebbene con una sottile differenza di significato che, a questi livelli, è difficilissimo rilevare. La situazione, poi, di poco cambierebbe se tentassimo di ricorrere ad opportuni simbolismi, poiché anch’essi necessiterebbero di essere interpretati, enunciati e spiegati. Se, poi, supponiamo che questo non sia un caso isolato, ma che ci si trovi all’interno di una data comunità, allora ci si ritrova in un mondo in cui tutti ottengono sempre gli stessi risultati, ma ciascuno seguendo una regola, per esempio quella di «addizione», sua particolare senza esserne minimamente consapevole, anzi credendo, in perfetta buona fede, di seguire la regola comune. Anche qualora si chiedessero lumi in merito, fra i membri della data comunità, ci si tranquillizzerebbe perché l’enunciato della regola suonerebbe uguale per tutti loro, nonostante nessuno sa, però, che il significato di termini come «contare» e «addizionare» è capito, od interpretato, da ciascuno in modo diverso, a suo modo.
Wittgenstein prima, e Kripke poi, si chiesero se mai poteva davvero esistere un simile, sventurato pianeta in cui una nuova ‘rivisitazione aritmetica’ della Torre di Babele sembra ripresentarsi. Quale disgraziato genere di esseri pensanti e parlanti potrebbe riscoprirsi angosciosamente portatrice di questa sindrome caratterizzata dalla totale confusione delle regole? Ebbene, il paradosso di Kripke-Wittgenstein (o di Kripgenstein) consiste proprio nell’annunciare impudentemente, sebbene con argomentazioni solide e rigorose, che questo pianeta è proprio la Terra, e che noi, proprio noi, siamo penosamente afflitti da questa sorta di ‘’Babele Aritmetica’’. A livello intuitivo, dunque, il paradosso emblematicamente fornisce il chiaro quadro di quale situazione verrebbe a presentarsi fra esseri intelligenti (cavalli addizionanti, uomini, ominidi o robot) nessuno dei quali possa mai sapere quale regola l’altro stia privatamente seguendo, nemmeno se l’altro, interpellato, linguisticamente la spiega o la enuncia. Visitando questo strano luogo, ci sentiremmo subito obbligati ad essere molto scettici e fortemente dubitanti circa la natura e l’identità delle regole «lì» vigenti. Guarderemmo anche con un certo compatimento un abitante di questa ‘’Torre di Babele Aritmetica’’ il quale fermamente pretendesse di spiegarci, enunciarci, la «regola» dell’addizione. Il risultato eclatante del genio irriverente di Kripgenstein sta proprio nel dimostrare che tale imbarazzante situazione riguarda proprio noi, narra cioè di noi, che noi siamo (o dovremmo essere) scettici su tutte le nostre regole, dalla grammatica alla matematica, dal significato dei termini del linguaggio corrente, fino alle regole aritmetiche, e così via. Che questa sia la nostra ‘misera’ umana condizione, è proprio l’amaro e crudo messaggio portato dal paradosso di Kripgenstein che, volenti o nolenti, dobbiamo accettare.
Ma, andiamo ancora oltre, cercando di capire ulteriormente perché tale paradosso riguarda proprio noi. Nella ‘privata’ stanza della nostra mente, almeno quando si tratta di una nostra regola, di una regola, cioè, che noi stessi privatamente seguiamo, non dovrebbe nascere alcun dubbio, anche se le cose non stanno effettivamente così. Invero, in ben noti esperimenti e studi condotti dagli psicologi americani Amos Tversky e Daniel Kahneman (nell’ambito del loro lavoro sui cognitive biases) risalenti agli anni ‘80, si chiese di eseguire, in non più di dieci secondi, una stima del seguente prodotto: . Il risultato medio ottenuto fu 512. Poi, si chiese di stimare lo stesso prodotto, sempre in non più di dieci secondi, ma in ordine inverso, cioè eseguendo lo stesso prodotto alla rovescia, ottenendo, stavolta, come stima media, il valore 2250. Questo fu già un fatto notevole abbastanza sorprendente in quanto, nonostante la ben nota proprietà commutativa dell’ordinaria moltiplicazione aritmetica, le stime medie ottenute furono alquanto differenti. Perciò, senza che ce ne accorgiamo, nel calcolo mentale rapido noi tutti seguiamo regole diverse da quella della moltiplicazione vera e propria, pur credendo di seguire la stessa regola. Addirittura accade che lo stesso soggetto, testato in momenti differenti, fornisca stime diverse del medesimo prodotto a fattori invertiti, non rendendosi dunque conto che il risultato stimato, quale esso sia, deve (ovvero, dovrebbe) essere sempre lo stesso. Il vero risultato, cioè 40.320, è in ogni modo sempre molto più grande delle stime ottenute e computate velocemente entro i dieci secondi assegnati dal test. In conclusione, questo caso dimostra come può succedere a tutti noi di seguire una regola «privata» credendo invece di seguirne un’altra, e ciò facendolo in perfetta buona fede e senza malizia. Esso quindi mostra quale notevole e sostanziale differenza ci sia fra il seguire una regola ed il credere di seguirla, poiché, come abbiamo appena visto sopra nel caso del calcolo veloce di un prodotto, si crede di seguire la normale, usuale regola aritmetica della moltiplicazione, mentre è chiaro che seguiamo, invece, qualche altra «privata» regola talmente diversa dalla prima al punto da fornire risultati del tutto differenti solo invertendo l’ordine dei fattori, cosa inammissibile per l’usuale moltiplicazione stante la sua commutatività. Un piccolo ma significativo esempio, questo, di come può aver luogo, tra noi, proprio qui sulla Terra, una piccola Babele privata, nel nostro intimo spazio mentale, sulla regola della moltiplicazione aritmetica. Ma è immediato trovare altri esempi simili relativi ad altre regole.
E anche se obiettassimo sulla brevità del tempo di calcolo avuto a nostra disposizione, le cose muterebbero di ben poco. Infatti, se considerassimo la moltiplicazione di due numeri telescopici talmente grandi da richiedere un tempo umanamente insostenibile, sarebbe possibile fornire, in modo analogo, solamente una stima del loro prodotto, magari calcolato entro una settimana, o un mese, ma comunque in un tempo comunque ragionevolmente finito. Tuttavia, ancora una volta, otterremmo stime approssimative che possono differire molto dal risultato esatto. Peraltro, la settimana o il mese di tempo di calcolo lasciato a disposizione, a tutti gli effetti equivarrebbe concettualmente ai dieci secondi del test di Tversky e Kahneman, forse per le stesse ragioni o magari per altre, non importa. Ciò che veramente conta è che noi credevamo che la regola della moltiplicazione, la stessa regola che tutti noi usualmente adoperiamo per calcolare prodotti che richiedono pochi minuti, si potesse applicare anche a numeri astronomicamente grandi; credevamo che la nostra impossibilità a calcolarli fosse solo una questione di tempo, di carta, di pazienza o di voglia, di qualche errore di attenzione o di riporto, ovvero di errori umani, molto umani, nella esecuzione di quella regola. Ma, niente paura! Altri ci rassicurano, infatti, che oggi, nell’epoca dell’alta tecnologia più spinta, è facile trovare un potente ultracalcolatore che può risolvere questa problematica ‘miseramente umana’ in men che non si dica, fornendo, in pochi secondi, quel prodotto che a noi avrebbe richiesto non meno di un paio di decenni per calcolarlo. Ed allora, problema risolto? Niente affatto! Perché, chi ci dice quale regola il calcolatore sta seguendo? È veramente la nostra stessa regola? Fin quando si ha a che fare con numeri che possono essere da noi manipolati in tempi ragionevoli, con le usuali regole dell’aritmetica, allora i risultati coincidono con quelli forniti da un calcolatore, ma oltre non sappiamo.
D’altro canto, è noto come un calcolatore non segue la nostra stessa regola nell’eseguire moltiplicazioni, giacché esso ricorre all’esecuzione rapidissima di una lunga serie di addizioni in un sistema di numerazione binario, anche se poi la matematica ci garantisce, a posteriori, l’equivalenza dei procedimenti, cioè l’equivalenza matematica fra la nostra regola di moltiplicazione e quella del calcolatore, quindi l’ottenimento necessariamente dello stesso identico risultato, quali che siano i numeri impiegati. Potremmo, dunque, concludere che il prodotto che noi avremmo ottenuto se avessimo impiegato decenni di calcoli sarebbe stato, ad ogni modo, lo stesso di quello fornitoci dal calcolatore? Non con tutta la sicurezza che ci vorrebbe per rispondere affermativamente ed in modo definitivo! Difatti, chi ci assicura che dopo, mettiamo diecimila anni necessari all’ingrato ‘’umano computo’’, avremmo effettivamente ottenuto proprio lo stesso risultato del calcolatore? E se fosse stato differente, magari perché la nostra regola della moltiplicazione e quella del calcolatore, da una certa cifra astronomica in poi, avrebbero diverso? Se, cioè, nuovamente intervenisse l’advocatus diaboli anche in questo caso come in quello dell’addizione, a ridestarci dal solito sonno dogmatico che spesso ci obnubila la ragione, ammonendoci dell’esistenza di altre modalità? Per esempio, anche se la nostra regola e quella del calcolatore fossero all’inizio esattamente le stesse, ma, da un certo punto in poi, divergono, nessuno potrebbe essere in grado di accorgersene. Rasentiamo, dunque, nuovamente scenari paradossali, ragion per cui la differenza fra ‘’seguire una regola’’ e ‘’credere di seguire una regola’’, si assottiglia sempre più, fino a far di nuovo comparire, sullo sfondo, l’angosciante scetticismo (humiano) di Kripgenstein.
Si potrebbe, a questo punto, obiettare che sia la mancanza di prove e test sufficienti a giustificare tale scetticismo, ovvero che per capire ed identificare una regola basterebbe ottenere prove e test migliori e più efficienti a tal fine, donde, posta su questo piano, la faccenda potrebbe risolversi ammettendo, comunque, l’esistenza della regola, sì, ma assieme ad una certa insufficiente capacità nell’identificarla, incapacità che, a sua volta, sta alla base di quei fraintendimenti paradossali sopra discussi fra il ‘’seguire una regola’’ ed il ’’credere di seguirla’’. Ciononostante, ancora una volta è lo stesso Kripgenstein che, sfacciato com’è, non ha remore a disilluderci subito dalla facile euforia frutto della convinzione di aver dunque risolto la questione messa in questi termini, poiché, ancora una volta, non si farebbe altro che rimandare ad un’altra super-regola, o metaregola di livello superiore, che permetta di discriminare fra il ‘’seguire una regola’’ ed il ‘’credere di seguire una regola’’, fatto, quest’ultimo, che, d’altronde, presupporrebbe pre-esistente una sottostante realtà oggettiva (1), uno sfondo oggettivo, al seguire una regola, da rilevare, appunto, tramite questa super-regola. Anche una presunta, obbiettiva «definizione» della regola non farebbe altro che rinviare alla problematica delle regole del linguaggio. Un’identica regressione ad infinitum si presenterebbe se facessimo poi ricorso ad un codice, una convenzione, una predisposizione, una legge di natura o un qualche meccanismo psicologico. Invero, adottare un codice, conformarsi ad una convenzione, lasciarsi guidare da una predisposizione, da una legge di natura o da un meccanismo psicologico ad hoc, non vorrebbe dire altro ancora che «seguire una regola», per cui saremmo di nuovo daccapo.
Insomma, delle due l’una: o qualcosa avviene in noi, nostro malgrado, senza che ce ne rendiamo conto, ovvero senza una ragione (for no reason, come direbbe Kripgenstein), oppure ciò ha luogo per qualche ragione. Se avviene senza una ragione, allora dobbiamo concludere che noi eseguiamo somme e prodotti, parliamo e intendiamo la nostra lingua, e facciamo mille altre cose governate da regole (dagli scacchi, la gastronomia, al codice stradale), senza sapere né quale regola stiamo seguendo, né tantomeno perché crediamo di seguire una regola quale che sia. Se, invece, una ragione c’è, allora dovremmo esplicitamente poter dire qual essa sia, cioè enunciare dei criteri, delle regole, ed il circolo vizioso si chiude di nuovo! Quindi, non c’è alcun fatto interno, alcuna ragione privata, intima, che possa garantire l’identità della regola, individuarla. Il paradosso di Kripgenstein consiste proprio nella inevitabile conclusione che tutti noi seguiamo ogni nostra regola senza una qualche ragione. È questa la portata dirompente del paradosso, che vale anche per l’addizione, anche per una semplicissima, banale addizione come, per esempio, 57 + 68! Dinanzi all’infinito matematico, poco importa l’uso di numeri piccoli o grandi, tantomeno ricorrere ad ultracalcolatori. Il paradosso sussisterebbe comunque!
nota 1. È quanto s’è cercato per esempio di considerare, sebbene in un caso particolare riguardante una regola algebrica, in Giuseppe Iurato, ‘’Alcune osservazioni su una regola algebrica’’, Quaderni di Ricerca in Didattica (Mathematics), GRIM-Università di Palermo, 23 (2013) pp. 1-14.
Kripgenstein parte proprio dall’esempio della somma 57 + 68 (ma qualunque altra va bene), e ci propone un esperimento concettuale riguardante un individuo diciamo (noi) ‘bislacco’ che dia, per quest’addizione, il risultato di 5! Poco importa il perché, forse è matto, magari è in preda ai fumi dell’alcool, oppure ha qualche circuito neuronale storto. Tutti noi sappiamo che il risultato è 125, mentre il risultato fornito dal tizio ci pare proprio assurdo, pazzesco. Ma se esso è definito, da noi, ‘pazzesco’, allora ci dovrebbe essere un qualche fatto oggettivo che lo dimostri tale (2). Insomma, come facciamo a dimostrare che la somma 57 + 68 non è 5? Ovvio, ci appelliamo solennemente alla definizione di somma, al significato del «più», o del suo simbolo +. Ma il sommatore ‘matto’, da par suo, sostiene che «sommare» significa continuare imperterriti a contare fino all’esaurimento delle cifre coinvolte, proprio come faremmo noi, se ambedue gli addendi sono minori di 50, mentre, se almeno uno degli addendi è maggiore di 50, il risultato è sempre e comunque 5. Non solo lui «intende» così il «significato» dell’addizione e del «più», ma ha l’ardire scanzonato di sostenere che anche per noi questo è il significato, che lo è sempre stato e che tale è per tutti. Il ‘bislacco’, a questo punto è chiaro, assume l’atteggiamento di un filosofo scettico e, come tale, vuole dimostrarci che non possiamo essere sicuri di sapere veramente ciò che crediamo di sapere. Per esempio, non possiamo essere sicuri di sapere che la somma di 57 più 68 è 125 e non 5 (o qualsiasi altro valore). Come trattare lo scettico, ovvero come persuaderlo, ma, prima di tutto, come persuadere noi stessi che il risultato è 125, non uno in più, non uno in meno? Bene, anzitutto enunciamo, avanti a lui, la regola dell’addizione usuale, ma ribatte che il significato dei termini stessi che usiamo (somma, addendi, riporto, etc.) non è fissato nel tempo, nemmeno per una stessa, medesima persona.
Potremmo, ad esempio, aver sempre seguito, senza accorgercene, una regola diversa da quella che ora sosteniamo di seguire. Magari potremmo essere nel caso messo in evidenza da Tversky e Kahneman, o nel caso sollevato dall’advocatus diaboli di turno, solo che qui, per quanto riguarda l’addizione, la diversità della regola si rileva abbastanza presto, già a 125. Oppure potremmo, senza esserne stati consapevoli, aver sempre seguito proprio la regola che dà 5, magari in un passato immemore, per le addizioni i cui addendi sono maggiori di 50. Lo scettico ‘bislacco’ ci suggerisce la pura possibilità, l’eventualità cioè, che il nostro attuale significato del termine «più» sia diverso da quello che noi stessi gli davamo, o credevamo di dargli, fino a ieri. Quindi, nemmeno prendendo un termine alla volta possiamo essere sicuri del suo significato. Cosa, infatti, ci garantisce di aver sempre inteso correttamente il significato di quel termine, per esempio del termine «più»? Come abbiamo visto, i risultati delle addizioni non bastano a garantire niente, in quanto potremmo essere, per esempio, in uno dei casi puntualmente prospettati dal solito advocatus diaboli della malora, senza rendercene conto. Bisogna, dunque, ricorrere a qualche fatto «interno», «privato», a qualche nostra proprietà, per esempio del nostro cervello o di quello di qualche calcolatore, che giustifichi le ragioni del nostro seguire quella regola, del nostro intendere quei termini così come noi li intendiamo.
Ma, quale fatto «interno» può fornirci il punto di appoggio per confutare il solido scetticismo di Kripgenstein? Quale nostra proprietà intima ci garantisce le nostre ragioni del seguire una regola invece di un’altra? Dopo quanto s’è sommariamente discusso finora, non stupirà se Kripgenstein ci dimostra che questo fatto «interno», questa «intima» proprietà o «predisposizione» non esiste, non può esistere a meno di voler rasentare l’assurdo, il paradosso appunto. Nessuna «proprietà» della
nota 2. Cfr. precedente nota.
nostra mente, del nostro linguaggio, del nostro cervello, può giustificare il nostro modo di intendere il «più»; niente ci può consentire di mostrare «oggettivamente» allo scettico che noi non intendiamo il «più» come lo intende lui. Forse è solo un fatto che lo intendiamo diversamente (e, questo fatto, Kripgenstein non lo nega), però questo è un fatto bruto, esorbitante la ragione umana. È così perché è così, punto e basta! For no reason, appunto. Ma se questo vale per il significato di «più», varrà anche per il significato di «verde», «gatto», «domani», e di qualsiasi altro termine linguistico. Vale per le regole della grammatica, per il gioco degli scacchi, per le leggi della caccia, per i vari codici, etc. E vale per il nostro «linguaggio privato» (private language), non solo per linguaggi parlati da persone diverse. Qualsiasi regola è da noi «seguita», anche in privato, anche nel segreto della nostra coscienza, in virtù o in forza di un qualche fatto bruto, senza una ragione né una giustificazione. Il paradosso di Kripgenstein è, ahimè, un duro colpo inferto alla nostra usuale concezione di razionalità basata sulle nozioni di regola e di seguire una regola. Cade, così, la concezione di una razionalità come puro comportamento governato da regole, arrivando alla drastica conclusione secondo cui noi facciamo quel che facciamo, qualunque cosa essa sia, senza una precisa ragione. Almeno, questo è quanto Kripgenstein vuol sostenere, forse in maniera, secondo il nostro parere, troppo oltranzista. Se si rifiutasse tale soluzione scettica, lui afferma, ricadremmo inesorabilmente nel circolo vizioso del paradosso, a cui lo stesso Wittgenstein, con il successivo appoggio di Kripke, tentò di darne una soluzione collettiva, ribadendo come il tanto ricercato «fatto», sul quale basare la confutazione dello scettico, non possa mai essere un fatto individuale, bensì solo un fatto collettivo.
La «ragione» del seguire una regola, compresa anche la regola dell’addizione, è perciò una ragione collettiva, sociale. Più individui, cioè, si accordano tra di loro per seguire una certa regola, magari senza una ragione (3) ma, una volta stipulato l’accordo, questo diventa la ragione. Altre ragioni, ragioni individuali, private, fra le quali quelle psicologiche, non possono essercene, proprio per via del paradosso. L’accordo collettivo non lascia, però, orme o tracce nella mente dei singoli, ove non troviamo alcun «fatto», alcuna «predisposizione» che gli sia propria, e che «spieghi» le ragioni del suo seguire la regola. Nemmeno l’analisi introspettiva ci può dare una pur minima garanzia soggettiva. Il «fatto» non appartiene a nessun individuo in particolare, cioè non è nell’individuo, né tantomeno nel suo cervello, che esso va ricercato. Il «fatto» è, per così dire, distribuito, diluito sulla collettività, è pubblico insomma. Kripgenstein sostiene, dunque, che il ‘’seguire una regola’’ altro non è che una «pratica», un «uso», un’«abitudine», donde le note locuzioni «un’usuale regola», «un’ordinaria regola», etc. Il seguire una regola è impossibile da realizzare privatim, poiché essa è intelligibile, comprensibile, solo all’interno dell’insieme delle modalità di comportamento comune agli individui di una certa comunità in cui vige, in un determinato periodo storico, detta regola la quale, quindi, non possiede una natura prima ed irriducibile ma è solo suscettibile di assumere delle espressioni quali sue attuazioni storiche in quel dato gruppo sociale.
nota3. A tale ‘’accordo collettivo’’ potrebbe ascriversi una motivazione rintracciabile per esempio nelle scienze fisiche, come suggerito nelle precedenti note.
Bibliografia
M. Piattelli Palmarini, Scienza come cultura. Protagonisti, luoghi e idee delle scienze contemporanee, a cura di Simone Piattelli, Saggi Oscar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1992.
L. Wittgenstein, Philosophical Investigations, 2nd Edition, Basil Blackwell, Ltd., Oxford, UK, 1958.